Quando ormai un anno fa (!) nasceva questa newsletter, nel “numero manifesto” vi raccontavo come l'espressione "God Gap" fosse utilizzata da sociologi, politologi e giornalisti per descrivere una tendenza osservabile dagli anni '80 e '90: la differenza di comportamento elettorale tra chi si riconosce in una religione istituzionale e ne è praticante e chi, invece, è meno osservante o del tutto privo di affiliazione religiosa. In termini generali: chi è più religioso, che sia protestante, evangelico o cattolico, tende a votare per il Partito Repubblicano, mentre chi è meno religioso o non religioso affatto tende a sostenere il Partito Democratico. Si tratta, ovviamente, di una semplificazione con diverse eccezioni. Non è sempre stato così. A metà del Novecento, il voto tendeva a riflettere maggiormente il tipo di affiliazione religiosa (cattolico, protestante, ecc.), mentre religiosità e appartenenza politica erano meno legate. Era inoltre più comune trovare progressisti religiosi e non credenti conservatori. Verso la fine del secolo, entrambe queste situazioni erano divenute sempre più rare, e con l’acuirsi della polarizzazione sociale e culturale del paese, le divisioni politiche e religiose hanno iniziato a rafforzarsi a vicenda. Tra la fine del Novecento e i primi decenni del Duemila, il livello di religiosità è diventato un indicatore più affidabile dell'orientamento di voto rispetto all'appartenenza religiosa.
In queste settimane si è tornato a parlare, sui giornali e siti di informazione statunitensi, di God Gap, come sempre accade sotto elezioni. A fronte di una società in costante trasformazione, parrebbe che il God Gap, pur con qualche correzione, continui a tenere. Se per esempio, sul Washington Post si è criticato il God Gap per non essere in grado di fotografare la realtà afroamericana–tradizionalmente piuttosto religiosa ma storicamente democratica–su Religion News Service si è fatto notare che i dati su cui il concetto di God Gap si è costruito tengono conto del totale della popolazione votante nel suo insieme e aggregano orientamento di voto e frequenza ai servizi religiosi, a prescindere da altre variabili come razza o etnia. Come scrive RNS, a partire dagli anni Novanta una percentuale crescente di coloro che affermavano di partecipare alle funzioni religiose almeno una volta alla settimana, votava repubblicano. Nelle elezioni del 2000, il divario pro-repubblicano era di 20 punti percentuali e da allora è rimasto stabile, raggiungendo i 24 punti nel 2020. Se è vero che questa tendenza si applica di più agli elettori bianchi che a quelli neri (nel 2020 il divario pro-Trump di 44 punti (71%-27%) tra i Bianchi che hanno affermato di partecipare al culto almeno una volta al mese rispetto al divario pro Biden di 80 punti (10%-90%) tra i Neri che hanno affermato lo stesso), sui numeri generali della popolazione il God Gap persiste.
Piuttosto sono altre variabili che richiedono una messa a punto. Come si nota dai dati forniti, le rilevazioni sulla frequenza sono passate dal sondare quella settimanale a quella mensile. Questo dipende da una molteplicità di fattori. La frequenza è comunque progressivamente in calo a livello generale, dopo il COVID a maggior ragione. Inoltre non è necessariamente una variabile attendibile, e tende a essere sovrastimata: le persone tendono a stimare per eccesso la loro reale frequenza quando viene loro chiesto direttamente al riguardo; il calo della partecipazione potrebbe riflettere nient'altro che un calo dello stigma sociale associato al non andare in chiesa, o almeno all'ammettere di non andarci. Questa tendenza riguarda anche coloro che sono considerati di solito più religiosi come gli Evangelici, come notato di recente da Ryan Burge: tra il 2008 e il 2023, la percentuale di evangelici che affermano di non andare mai in chiesa è salita dal 3% al 10%; la percentuale di coloro che affermano di andarci meno di una volta al mese, dal 29% al 40%. Mentre gli Evangelici che non vanno in chiesa sembrano essere un poco meno propensi a votare per Trump rispetto ai loro pari che vanno in chiesa, non c'è dubbio che molti invece lo sosterranno, nota Burge.
In questo quadro si inserisce tuttavia un’altra variabile cruciale, che potrebbe rivelarsi molto importante nelle elezioni del prossimo 5 Novembre, un altro Gap: il Gender Gap.
Come scrivere il Center for American Women and Politics dell’Eagleton Institute of Politics presso la Rutgers University, uno dei centri di primaria importanza per lo studio della partecipazione politica femminile, il Gender Gap, il divario di genere, si riferisce alla differenza tra la percentuale di donne e la percentuale di uomini che votano per un determinato candidato o sostengono un particolare partito, un determinato funzionario o una determinata questione. Come nota sempre il CAWP, le donne hanno votato in percentuali più elevate rispetto agli uomini in ogni elezione presidenziale dal 1980, con il divario di affluenza alle urne tra donne e uomini che ha continuato ad aumentare con ogni successiva tornata elettorale.
Inoltre, in ogni elezione presidenziale dal 1980, è emerso un divario di genere, con una percentuale maggiore di donne rispetto agli uomini che hanno preferito il candidato democratico in ogni caso. L'ampiezza del divario di genere è variata tra i quattro e i dodici punti dal 1980. In ogni elezione presidenziale dal 1996, la maggioranza delle donne ha preferito il candidato democratico. Inoltre, uomini e donne hanno favorito candidati diversi nelle elezioni presidenziali dal 2000, con l'eccezione del 2008, quando gli uomini erano quasi equamente divisi nelle loro preferenze tra il democratico Barack Obama e il repubblicano John McCain. Nel 2020, la maggioranza delle donne ha favorito Joe Biden, mentre la maggioranza degli uomini ha votato per Donald Trump.
Se i trend sembrano consolidati, quest'anno tuttavia il peso del Gender Gap potrebbe rivelarsi ancora maggiore. Solo nelle ultime settimane si sono susseguiti articoli con questi titoli: “How Gender Became the Election’s Crucial Fault Line” (New York Times); “Gender is going to be a huge factor in this election” (Guardian); “The voter gender gap is growing” (Politico); “The Gender Gap is the Trump-Harris Election Race's Defining Feature” (Wall Street Journal). Anche nell'ultimo numero di Americana, newsletter di Internazionale, Alessio Marchionne ha affrontato il tema riprendendo il pezzo del NYT.
I motivi sono molteplici, Brookings, Centro di ricerca a think tank nonpartisan, ne elenca almeno tre, piuttosto ovvi: uno dei due candidati potrebbe diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti; la questione dell'aborto è sentita come non mai e potrebbe aumentare la già elevata affluenza femminile; le elezioni negli stati indecisi sono estremamente serrate. Motivi ovvi, si diceva, ma tutt’altro che banali, e soprattutto ‘critici’. Per Politico, il tradizionale divario di genere somiglia ormai più a “un abisso”. Le elettrici, le loro preoccupazioni e i loro giudizi sui candidati saranno decisivi nelle elezioni. Nei sondaggi negli stati in bilico condotti dal New York Times/Siena ad agosto, l’economia e l’inflazione sono le questioni più importanti per gli uomini nella decisione del voto. Per le donne, l'aborto e l'economia e l'inflazione sono considerati ugualmente importanti, mentre per le donne sotto i 45 anni l'aborto è la questione principale in assoluto.
Incrociando i dati tra affluenza e orientamento di voto delle ultime tornate elettorali e i trend di crescita, e focalizzando in particolare sugli Stati in bilico, Brookings conclude che se la composizione dell'elettorato tra uomini e donne rimarrà la stessa del 2020, Harris potrebbe vincere in Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Nevada—tutti stati che Biden ha vinto nel 2020. Potrebbe anche vincere in North Carolina (che Biden ha perso nel 2020), ma con un margine molto ristretto. Trump vincerebbe in Arizona e Georgia, due stati che Biden ha vinto nel 2020. Questo porterebbe a una vittoria di Harris nel Collegio Elettorale. Se il divario di genere nelle preferenze presidenziali rimanesse lo stesso, ma l'affluenza degli uomini dovesse aumentare notevolmente rispetto al 2020, questo sarà favorevole a Trump. Se l'affluenza delle donne rimane invariata rispetto al 2020, potrebbe essere un buon segno per Harris. MA, se come alcuni osservatori prevedono, dovesse aumentare, questo potrebbe essere un'ottima notizia per Harris.
Il New York Times sottolinea che se il genere è la linea di frattura più profonda nella campagna presidenziale di quest'anno, tuttavia, questo non dipende tanto da Harris, che non sta di fatto puntando sulla possibilità di diventare la prima presidente donna del paese. Sono piuttosto Trump e Vance ad aver trasformato le elezioni in una questione di genere, abbracciando quella che il NYT definisce una forma di "Hyper-masculinity" o “Manoverse”.
E non è un caso.
Facciamo un passo indietro. Ma molto indietro.
È l’ottobre del 1997 e al National Mall di Washington DC, luogo simbolo di manifestazioni oceaniche di ogni genere, della Marcia per il lavoro e la libertà di Martin Luther King del 1963 in giù, è riunita una folla tra le 600 e le 800 mila persone. O meglio, una folla di centinaia di migliaia di uomini. Si tratta dell’evento culmine e più importante nella breve ma intensa storia di un movimento chiamato Promise Keepers, organizzazione Evangelica nata nel 1990 su idea dell’allenatore di football della University of Colorado Boulder come ministero esclusivamente rivolto agli uomini. Nel corso degli anni Novanta Promise Keepers divenne la più grande e tra le più influenti organizzazioni evangeliche del Paese, con raduni di decine di migliaia a di persone in tutte il paese e un crescente peso politico. Coloro che aderivano al movimento si impegnavano a rispettare sette “promesse”: onorare Gesù, coltivare relazioni significative con altri uomini, per mantenere le sue promesse; praticare purezza spirituale, morale e sessuale; costruire un matrimonio stabile; servire gli altri con integrità; superare qualsiasi barriera razziale, denominazionale, generazionale e culturale per dimostrare il potere dell'unità biblica; agire nel mondo obbedendo al Grande Comandamento.
L'organizzazione aveva un ruolo e uno statuto ambiguo anche per l’epoca. Mentre di fatto non era diretta emanazione di quelle realtà che in quella fase storica rappresentavano la Religious Right, come la Christian Coalition, ed era per certo piuttosto differente anche da quelle che sono oggi la gran parte delle dei movimenti evangelici, si trattava pur sempre di movimento conservatore, votato a riportare al centro la figura dell’uomo forte, capofamiglia e i cosiddetti valori tradizionali. D'altra parte uno degli aspetti centrali e costitutivi del movimento era anche il superamento delle divisioni razziali e la lotta aperta al razzismo. Ma proprio questo punto, a detta di molti osservatori e storici, fu una della principali ragioni del suo declino: non tutti evidentemente era così committed a questa promessa non scritta.
Dopo decenni di dormienza, i Promise Keepers hanno trovato nel calderone dei movimenti MAGA, pentecostali, del Christian Nationalism un nuovo terreno fertile. Ed è significativo che chi oggi guida questo movimento, Shane Winnings, veterano e predicatore, una persona che in quel 1997 aveva appena 3 anni, abbia scelto non di dare vita a un nuovo movimento o aderire a uno dei tanti che oggi popolano quel campo, ma di rivificare i Promise Keepers: un movimento di e per uomini e uomini soltanto che predica cose come "Vogliono che gli uomini americani siano deboli, messi all'angolo, spaventati della propria ombra. Se gli uomini cristiani tornano a votarsi alle promesse della Bibbia, questo paese può e sarà salvato” secondo le parole di Charlie Kirk, attivista e conduttore radiofonico ultra conservatore, anch’egli trentenne, a un evento dei Promise Keepers lo scorso agosto a Tulsa con circa 2mila persone presenti.
Come ha raccontato il NYT, all'evento di Tulsa, il pubblico tutto maschile comprendeva padri e figli, piccoli gruppi di amici e gruppi di chiesa provenienti dagli stati vicini. Kevin Richard, 34 anni, ha partecipato all'evento con il figlio di 16 anni. Richard lavora come operatore di produzione su una piattaforma petrolifera nel Golfo del Messico, un ambiente che ha descritto come spiritualmente impegnativo: pieno di linguaggio "volgare e denigratorio", con pochi cristiani a offrire sostegno morale. Richard attendeva con impazienza una sessione con Joshua Broome, un ex attore pornografico (pentito e convertito), che ha parlato in un panel sulla mascolinità,. "Cerco di avvicinarmi a tutto ciò che può aiutarci a diventare uomini coraggiosi nella nostra fede", ha detto Richard.
La leadership attuale dell'organizzazione afferma che deve adattare la propria storia decennale per sopravvivere in un panorama che include molti influencer come Broome e raduni di vario genere che fondano la loro attività sull’ipermascolinità in chiave (vagamente) cristiano (e molto) nazionalista. La Strong Men’s Conference, per esempio, promossa la scorsa primavera a Springfield, Missouri dalla James River Church, una megachurch pentecostale, e tenutasi alla Great Southern Bank Arena, ha avuto come Mission, secondo il comunicato ufficiale, quella di “ispirare e preparare gli uomini a vivere secondo la visione di Dio per la mascolinità, affinché siano i mariti, padri e leader che Dio li ha chiamati a essere”. Per raggiungere l’obiettivo, apparentemente, il programma della due giorni ha incluso esibizioni di monster truck con spettacoli pirotecnici, un incontro di boxe, e uno scontro (molto probabilmente staged) tra due pastori evangelici riguardo l’esibizione alla Conferenza di un mangiatore di spade ritenuta eccessivamente “omoerotica”. (La James River Church organizza anche un annuale, speculare Conferenza per le donne chiamata Designed for Life, il cui tema principale, a giudicare dal video di presentazione, sembra essere, a parte la maternità, il rosa).
Ora, per quanto queste realtà rappresentino solamente settori del Paese, e finanche settori della parte Evangelica del Paese, e s'inseriscano in contesti che tengono insieme in maniera volutamente ambigua religione, politica e questioni di genere, d’altra parte il loro successo s’inserisce in un contesto più ampio, che è una piccola ma rilevante novità nella storia recente, sociale, religiosa e culturale, degli Stati Uniti e si collega in modo significativo con quanto abbiamo visto in apertura tanto in tema di God Gap quanto in materia di Gender Gap.
Storicamente le donne sono sempre state ritenute (e di fatto i dati hanno sempre confermato) più religiose degli uomini, in termini di frequenza ai servizi religiosi e altri parametri. Nell'ultimo decennio, con un’accelerazione senza precedenti, e in percentuali decisamente superiori rispetto alla media della popolazione, le donne hanno cominciato a essere sempre meno religiose, o quanto meno a frequentare sempre meno le chiese e a riconoscersi in esse. Burge ha analizzato il calo della frequenza settimanale dal 2008 al 2023 in relazione al genere e al grado di istruzione: i risultati parlano da soli.
Mentre il progressivo calo è cominciato già negli anni Ottanta, anche nel contesto di una progressiva, generale secolarizzazione, non è probabilmente un caso che la frequenza alle funzione delle donne sia scesa al di sotto di quella degli uomini per la prima volta nel 2016, l'anno dell’elezione di Trump, l’anno, come scritto da Religion Dispatches “in cui gli Evangelici si sono avvicinati definitivamente a Donald Trump e i vescovi cattolici hanno effettivamente contribuito a spingerlo in carica con allarmismi sulla libertà religiosa”. La decisione della Corte Suprema di ribaltare la Roe v. Wade e soprattutto le conseguenze concrete sulle vite di molte donne, hanno rafforzato questo trend. In giugno, la Southern Baptist Convention ha votato contro l'uso della fecondazione in vitro (IVF), un passo verso il riconoscimento degli embrioni come esseri umani. Ma la SBC era stata battuta sul tempo dalla Corte Suprema dell’Alabama che aveva portato allo stop temporaneo delle procedure di fecondazione nello Stato. Nelle ultime settimane, Trump ha sostenuto ripetutamente a vari eventi di essere “il padre dell’IVF”. Dalle parti della sua campagna elettorale sanno bene di avere un problema con l’elettorato femminile.
Tutte queste tendenze fin qui viste si coagulano in due fenomeni emersi negli ultimissimi anni, rilevanti e connessi. Gli uomini della Generazione Z, ossia che oggi hanno, indicativamente, tra i 15 e 25 anni, sono molto più religiosi delle coetanee donne (e anche rispetto ai coetanei delle generazioni precedenti) e sono molto più conservatori e sostenitori di Trump.
In quello che il NYT ha definito potenzialmente uno degli sviluppi più importanti della stagione elettorale, che potrebbe cambiare il modo in cui comprendiamo le dinamiche di genere e culturali nell’America di oggi, Trump ha un vantaggio su Harris tra i giovani uomini del 58% contro il 37%, secondo gli ultimi tre sondaggi nazionali del Times/Siena. Harris detiene un vantaggio ancora maggiore tra le giovani donne, con un 67-28. Harris non performa meglio di quanto facesse Biden tra i giovani uomini, avendo invece fatto progressi significativi tra le giovani donne.
In un vero e proprio backlash nei confronti del progressismo tra i giovani uomini contro il cambiamento dei ruoli di genere (CNN), questa tendenza potrebbe rappresentare una minaccia al tradizionale vantaggio del Partito Democratico tra i giovani elettori che il partito ha goduto per decenni. I giovani uomini un tempo votavano come “giovani”: a sinistra. Ora potrebbero iniziare a votare come “uomini”: a destra. Secondo dati riportati dal Guardian, nel 2016, il 51% dei giovani uomini si identificava o si orientava verso il Partito Democratico. Lo scorso anno, questa percentuale è scesa al 39% e il loro sostegno a Trump è aumentato rispetto al 2020. Al contempo, le donne della Gen Z non sono solo diventate la coorte più progressista nella storia degli Stati Uniti, ma si prevede anche che supereranno i loro coetanei maschi su quasi ogni indicatore di partecipazione politica.
A questo fenomeno se ne associa un altro, che si allinea con quanto visto in precedenza, ma risulta più sorprendente quando parliamo di ventenni. Per la prima volta nella storia moderna americana, i giovani uomini sono più religiosi delle loro coetanee. Frequentano i servizi religiosi più spesso e hanno maggiori probabilità di identificarsi come religiosi. Quasi il 40% delle donne Gen Z si descrive come non affiliato religiosamente, rispetto al 34% degli uomini. Uomini e donne della Gen Z seguono traiettorie divergenti in quasi ogni aspetto della loro vita, inclusi educazione, sessualità e spiritualità. Le giovani donne, secondo le indagini, anche quando mostrano forme di spiritualità o religiosità, sono fortemente orientate nelle loro scelte dalle battagli legate all’eguaglianza di genere e ai diritti riproduttivi. I giovani uomini hanno preoccupazioni diverse. Sono meno istruiti rispetto alle loro coetanee. Nelle grandi città, tra cui New York e Washington, guadagnano meno. Allo stesso tempo, attribuiscono maggiore importanza alla vita familiare tradizionale. I giovani uomini senza figli hanno più probabilità delle loro coetanee di dire che un giorno vorrebbero diventare genitori, con una differenza di 12 punti percentuali, secondo un sondaggio Pew dell'anno scorso.
Come tutte queste tendenze influiranno sul voto del 5 Novembre è cosa che ormai scopriremo a breve.
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Ormai ci siamo, tra dieci giorni esatti gli Stati Uniti andranno alle urne—o meglio, finiranno di andare alle urne, dato che in molte realtà si vota già da settimane. È possibile che anche quest’anno, come già accadde nel 2020, non si sappia già la mattina del 6 Novembre chi sarà il vincitore.
Con The God Gap, che alla vigilia delle elezioni compirà un anno, ci sentiamo nei giorni subito prima o subito dopo—vediamo che aria tira—per fare un bilancio di quest’anno, dire qualcosa su questo passaggio cruciale, e inaugurare un nuovo anno insieme.
Se The God Gap vi piace spargete la voce. Grazie e alla prossima!