God is Red
Un Cristo Apache, un intellettuale di rottura e un pezzetto di storia dei Nativi Americani
La St. Joseph Apache Mission è una parrocchia cattolica fondata agli inizi del Novecento, con sede in una chiesa in pietra in stile romanico a Mescalero, un piccolo centro del New Mexico situato sul territorio della Mescalero Apache Reservation che conta oggi meno di mille abitanti. La St. Joseph sorge su un sito legato all’antico popolo Nativo Jornada Mogollon, la cui presenza si perde verso la metà del XV secolo, prima ancora dell’invasione spagnola, probabilmente a causa dei cambiamenti climatici (la tradizione Mogollon è una delle tre grandi culture native del South-West, insieme agli Anasazi e agli Hohokam).
La chiesa e la comunità sono parte fondamentale della storia della zona e rappresentano un punto di riferimento per la piccola comunità locale, che conta qualche centinaio di parrocchiani. Nel corso del tempo, all'interno della chiesa sono state collocate diverse opere di arte sacra, che riflettono l'identità di una comunità che è tanto cattolica quanto è nativa.
In particolare, dal 1989, dietro l'altare è appesa un'icona alta circa due metri e mezzo, che rappresenta Cristo come un guaritore Apache, realizzata dall'artista e frate francescano Robert Lentz. L’icona raffigura Cristo come un medicine man Mescalero, un guaritore e leader spirituale. È dipinto in cima alla Sierra Blanca, una catena montuosa del New Mexico, indossando abiti tradizionali, con la mano sinistra sollevata e sul palmo il simbolo del sole. Ai suoi piedi si trova un cesto contenente oggetti sacri, mentre un'aquila che vola sullo sfondo simboleggia lo Spirito Santo. Nella parte superiore si trovano simboli greci che fanno riferimento a Gesù Cristo, mentre nella parte inferiore sono incise le parole Apache Bik’egu'indán ("Datore di vita"), uno dei nomi Apache per il Creatore.
Lentz dipinse il Cristo dopo aver studiato i rituali Apache e aver consultato 15 leader Mescalero e cattolici, che approvarono l'opera. Per la pittura, utilizzò acqua raccolta da una sorgente sacra sulla Sierra Blanca per mescolare i colori.
Il 27 giugno scorso, i fedeli e i volontari giunti in chiesa per le attività hanno scoperto che l’icona del Cristo Apache era stata rimossa, insieme a un dipinto più piccolo raffigurante un danzatore sacro indigeno e a calici e cesti di ceramica donati dalla comunità Pueblo, usati durante l'Eucaristia. La rimozione era stata eseguita dal parroco Peter Chudy Sixtus Simeon-Aguinam e da un inviato della diocesi, in accordo con il vescovo di Las Cruces, Peter Baldacchino. Dopo le proteste della comunità, gli oggetti sono stati restituiti e riposizionati, e il parroco è stato sostituito.
Baldacchino ha poi incontrato il consiglio parrocchiale di Mescalero, ma alcuni membri hanno notato che sembrava più preoccupato per la reinstallazione dell'icona che per riconoscere il danno inflitto. Alcuni hanno visto la nomina di un nuovo sacerdote, più vicino alla comunità Apache, come un passo positivo, ma per molti, il gesto ha riaperto ferite mai rimarginate riguardo alla possibilità di sentirsi Apache e cattolici allo stesso tempo.
La situazione emersa da questa vicenda riflette la condizione spesso vissuta dai Nativi Americani: la necessità di abitare simultaneamente due mondi e due culture. Come dipinge una metafora, per i Nativi abitare due culture è come avere i piedi in due canoe: una rappresenta il mondo bianco, l'altra il mondo indigeno. Talvolta, queste canoe si allontanano così tanto da costringere una persona nativa a scegliere se mantenere un piede in entrambe, rischiando di cadere in acqua, o saltare in una delle due, perdendo l'altra. Spesso, i Nativi Americani sono rappresentati come costretti a scegliere tra la loro cultura tradizionale e quella bianca e/o cristiana, oppure come alienati da entrambe. In realtà, l'esperienza di negoziare tra queste due culture è molto più complessa di quanto la metafora delle canoe possa suggerire. Oggi, per molti Nativi Americani, questa complessa navigazione è parte integrante della loro quotidianità.
Per i parrocchiani della St. Joseph, questa dualità si manifesta sia nella fede che nella pratica concreta. Il Creatore della tradizione Apache è visto come coincidente con il Dio cristiano. In un fine settimana estivo, dopo che l'icona del Cristo Apache era stata riposizionata dietro l'altare, la comunità si è riunita per celebrare il passaggio all'età adulta di due giovani ragazze attraverso un rito di benedizione, alla presenza dei leader Mescalero. La mattina successiva, gli stessi parrocchiani si sono ritrovati per partecipare alla Messa, cercando di ristabilire un equilibrio continuamente spezzato.
Le parrocchie cattoliche native negli Stati Uniti, come la St. Joseph, sono circa 340 e rappresentano solo una piccola parte dell'universo complesso e in continua evoluzione della spiritualità e religiosità dei Nativi Americani di oggi, che a sua volta è solo un segmento di una storia millenaria. Non solo sarebbe impossibile, in questo contesto, rendere giustizia al tema che potrebbe essere riassunto sotto l’etichetta "Nativi Americani e Religione", ma personalmente mi sento inadeguata a un compito così vasto. È anche per questo che da mesi sto cercando di scrivere questo numero di The God Gap, con grande difficoltà nel trovare il giusto angolo, le storie e le fonti.
Quello che posso tentare di fare—almeno oggi—è dipingere un piccolo spaccato: da una parte di quella che può essere la realtà o una parte della realtà delle comunità Native e del loro rapporto con le religione negli anni Venti del 21 secolo e dall’altra delle radici di questa realtà. La storia del Cristo Apache della St. Joseph racchiude in sé un microcosmo rappresentativo di tutto ciò.
Secondo il più recente Census of American Religion del 2023, realizzato dal PRRI (Public Religion Research Institute), circa il 63% dei Nativi Americani si identifica come cristiano. In particolare, il 46% è protestante (31% evangelico e 15% mainline), il 12% cattolico, il 2% Testimone di Geova o cristiano ortodosso, e l'1% mormone. Circa il 7% si identifica come non cristiano: il 5% aderisce a una religione non cristiana, l'1% si dichiara buddista o unitariano universalista, e meno dell'1% è ebreo. Oltre il 30% è non affiliato o non credente.
Queste percentuali riflettono grosso modo la media nazionale della popolazione statunitense—un dato che, in mancanza di una parola migliore, mi viene da definire tristemente inquietante.
D’altra parte, due elementi meritano particolare attenzione. Da un lato, il rapporto con la cristianità e le sue varie denominazioni è stato, all'origine evidentemente caratterizzato da violenza e sottomissione. Dall'altro, ciò che è emerso, e che oggi rappresenta la vita di queste comunità, è frutto di un incontro-scontro, di una resistenza che ha dato origine a realtà sincretiche, come nel caso della St. Joseph.
Come detto, il percorso che ha portato a queste realtà è stato segnato dalla sopraffazione, ma ciò che queste comunità rappresentano oggi è il risultato di secoli di storia. Se da un lato portano con sé il trauma intergenerazionale e culturale comune ai Nativi Americani, dall’altro si trovano oggi a un crocevia complesso, probabilmente doloroso, ma anche autentico e personale. E ogni storia si realizza in modi diversi.
La storia di questo rapporto è stata narrata in molti modi diversi, a seconda di chi raccontava. La narrazione classica delle esperienze dei Nativi Americani è spesso filtrata attraverso la prospettiva etnocentrica euro-americana.
Per secoli, a partire dall'epoca della colonizzazione e delle missioni, la conoscenza delle tradizioni nativo-americane è stata controllata dai coloni e dai missionari. Anche nel primo Novecento e a metà del secolo scorso, gli studi etnografici e antropologici continuavano a mantenere un punto di vista esterno, risultando, nella migliore delle ipotesi, parziali. Le narrazioni che descrivevano i Nativi come “pagani” e “selvaggi” non erano meno fallaci di quelle che li ritraevano come primitivi romantizzati o “buoni selvaggi”.
Troppo spesso, la storia delle missioni cristiane tra i Nativi Americani è stata ridotta a rappresentazioni unidimensionali, gran parte della ricerca della metà del ventesimo secolo è caduta in due facili trappole. In primo luogo, gli sforzi per sintetizzare diverse nazioni native hanno attenuato le esperienze uniche di ogni comunità, portando a un’analisi delle pratiche e delle credenze native come idee astratte. In secondo luogo, hanno contribuito a un pregiudizio positivo verso il passato, concentrandosi sul mondo pre-contatto con gli europei e minimizzando i modi innovativi in cui le tradizioni native si sono adattate e trasformate.
L’immagine del missionario che si sacrifica, affrontando le difficoltà della frontiera senza considerare le avversità affrontate dai popoli nativi a causa della colonizzazione, ha ceduto il passo a storie più sensibili ai Nativi Americani negli anni ’60 e ’70. Tuttavia, queste narrazioni sono cadute spesso nell’estremo opposto, rappresentando i Nativi esclusivamente come vittime di un destino inevitabile, trascurando di focalizzarsi sull'adattamento come segno di agency, di forza e di resilienza.
Con l'emergere della nuova storia indiana e del postcolonialismo, sono state sviluppate storie più critiche delle esperienze complesse dei Nativi Americani
Tra le molteplici narrazioni che emergono nell'esplorazione delle spiritualità native e delle esperienze sincretiche di coloro che, pur identificandosi nel cristianesimo, portano dentro di sé una frattura tra due mondi, si distingue una prospettiva particolarmente illuminante. Questa visione non solo mette in luce alcune delle contraddizioni e discriminazioni presenti in tali contesti, ma offre anche spunti per comprendere la complessità di realtà come quella della St. Joseph. È una posizione provocatoria sotto certi aspetti, poiché affronta temi difficili e svela le tensioni insite nell'incontro tra tradizioni religiose profondamente diverse.
Vine Deloria Jr., uno dei principali intellettuali e attivisti del mondo nativo americano, ha dato un contributo fondamentale non solo alle lotte politiche degli anni Sessanta e Settanta, ma anche al dibattito sulla storia, la cultura e la religiosità dei popoli nativi in relazione all'incontro con gli europei. Appartenente alla nazione Sioux, Deloria proveniva da una famiglia con forti legami religiosi e accademici: il padre era un diacono episcopaliano e missionario, mentre la zia era un'antropologa, una combinazione senza dubbio singolare, considerando le dinamiche discusse in precedenza.
Deloria ha frequentato le reservation schools, e, nel 1963, si è laureato in teologia presso la Lutheran School of Theology di Chicago. Inizialmente intenzionato a seguire le orme del padre come ministro, ha presto abbandonato il percorso cristiano, trovando nella legge e nella politica una nuova via per esplorare e difendere i diritti dei popoli nativi. Si è laureato in giurisprudenza presso la University of Colorado nel 1970, sviluppando teorie sul diritto, sulla politica e sull'identità nativa che hanno influenzato profondamente il pensiero accademico e attivista.
Negli anni '70, Deloria si distinse come una figura di spicco nel movimento per i diritti civili dei Nativi Americani. Ricoprendo il ruolo di direttore esecutivo del National Congress of American Indians dal 1964 al 1967, giocò un ruolo chiave nell'ampliare la rappresentanza delle tribù, passando da 19 a 156 membri. Il suo impegno si concentrò sulla promozione della sovranità tribale e sulla salvaguardia dei diritti delle terre indigene. Inoltre, Deloria contribuì alla redazione di leggi fondamentali, come l'Indian Self-Determination and Education Assistance Act del 1975, una normativa che conferì maggiore autonomia alle tribù nella gestione dei loro affari e nel controllo delle istituzioni educative.
Il suo libro più noto, Custer Died for Your Sins: An Indian Manifesto (1969), ha avuto un impatto significativo nel portare all’attenzione del pubblico le problematiche dei nativi americani, nello stesso periodo in cui il Red Power Movement occupava Alcatraz. Con un approccio ironico e provocatorio, Deloria sfida gli stereotipi associati ai nativi americani, denunciando le ingiustizie storiche e criticando severamente il paternalismo esercitato dal governo federale e dalle chiese cristiane. Accusa entrambe le istituzioni di aver sostenuto la subordinazione e l’assimilazione forzata delle popolazioni indigene. Deloria sostiene con fermezza che la vera liberazione dei nativi americani dipenda dalla riscoperta delle loro identità culturali e spirituali e dal rispetto dei trattati stipulati con il governo degli Stati Uniti.
Il tema dei trattati tra il governo degli Stati Uniti e le tribù native occupa un posto centrale nella sua opera. Per Deloria, questi accordi non sono semplicemente strumenti legali, ma rappresentano un riconoscimento della sovranità e della spiritualità delle comunità indigene. La violazione di tali trattati non è solo una questione giuridica, ma una grave infrazione dei principi spirituali che definiscono l’identità dei nativi americani. Deloria affronta questo tema in due libri usciti a un anno di distanza, tra il 1973 e il 1974. In Behind the Trail of Broken Treaties, Deloria inquadra la marcia del 1972 per i trattati violati e l’occupazione dell’ufficio degli Affari Indiani come un problema politico. Lo stesso evento emerge anche in God is Red che reinterpreta l’evento, sottolineando come non si tratti semplicemente di un problema politico, ma di un problema religioso.
Pubblicato per la prima volta nel 1973 e ripubblicato in diverse edizioni anniversario, l’ultima delle quali nel 2023, in God is Red: A Native View of Religion Deloria mette in evidenza l’incompatibilità tra le religioni native radicate nello spazio e il cristianesimo legato alla dimensione del tempo.
Deloria sostiene che la tradizione cristiana si basi su una concezione di tempo, storia e cronologia mentre le tradizioni native si concentrano su spazio, conoscenza tradizionale e potere spirituale.
Questa distinzione è cruciale per comprendere come le religioni native considerino la terra come un’entità sacra, in contrasto con la visione cristiana che separa l'uomo dalla natura e promuove un mondo antropocentrico.
In God is Red, Deloria critica la linearità del tempo cristiano, che proietta la redenzione nel futuro, e mette in luce come le pratiche religiose native siano invece connesse ai cicli naturali e al territorio. Le cerimonie, come la danza del sole o il rituale del primo pesce, esemplificano questo legame profondo con la terra e le sue forze spirituali. Deloria sottolinea come le storie e i miti cristiani, centrati sulla figura di un Dio trascendente e distante dal mondo materiale, abbiano contribuito a creare una mentalità che vede la natura come una risorsa da sfruttare piuttosto che come una comunità di cui fare parte. Al contrario, la spiritualità nativa è caratterizzata da una visione olistica del mondo, in cui tutto ciò che esiste è interconnesso e possiede una dimensione spirituale. Gli esseri umani, gli animali, le piante, le montagne e i fiumi sono visti come parte di un unico grande spirito.
Per Deloria, inoltre, questa dimensione del cristianesimo legata al tempo—all’origine edenica dei tempi e alla fine messianica dei tempi—ha contribuito a renderlo una religione a aspirazione universale che ha sacralizzato ideologie di espansione globale.
In God is Red, Deloria critica non solo il cristianesimo, ma anche alcuni aspetti della scienza occidentale, considerandola una forma di religione con la sua ortodossia. Deloria respinge la comprensione scientifica riguardo alle origini dei popoli indigeni nelle Americhe, sostenendo che la scienza sia essenzialmente una religione, con proprie norme e dogmi. Ciò gli ha attirato critiche, ma allo stesso tempo ha portato avanti un dibattito cruciale sul valore delle tradizioni native e la loro capacità di offrire risposte ai problemi contemporanei, inclusi quelli ambientali.
La sua intenzione principale era quella di stimolare una riflessione critica e incoraggiare un cambiamento di paradigma nel modo in cui le società occidentali percepiscono e interagiscono con le culture indigene.
Il pensiero di Vine Deloria Jr. si distingue per la sua complessità e la sua capacità di stimolare una riflessione profonda sulle comunità Native American. Deloria ha messo in evidenza l'importanza delle culture, delle credenze e delle tradizioni indigene, sottolineando il loro ruolo cruciale non solo come motivo di orgoglio, ma anche come bastione di resistenza politica. La sua analisi evidenzia come la cultura indigena si radichi profondamente nella natura e nello spazio fisico, suggerendo che una comprensione più sfumata di queste relazioni è essenziale. A tal proposito, un articolo su The Conversation ha illuminato in particolare quest’aspetto che può apparire più problematico di quanto forse non sia.
Rosalyn R. LaPier, Research Associate in Women's Studies, Environmental Studies and Native American Religion alla Harvard Divinity School ha evidenziato come il rapporto tra le tradizioni native americane e la scienza occidentale sia complesso e stratificato, caratterizzato da tensioni storiche ma anche da una crescente sinergia. Mentre molte comunità indigene hanno guardato con scetticismo all'approccio scientifico, che spesso non tiene conto delle loro credenze e pratiche culturali ad esempio considerando come meri oggetti di studio elementi importanti delle loro culture e tradizioni, a partire dai resti umani di epoca preistorica, disconoscendo la dimensione spirituale e culturale che questi oggetti rappresentano.
Per i nativi americani, elementi come la religione e la scienza non sono categorie distinte, ma interconnesse, riflettendo un modo di percepire il mondo in cui spiritualità e conoscenza scientifica si intrecciano. Questa integrazione si manifesta in una comprensione olistica dell'ecologia, dove il rispetto per la terra e le sue risorse è radicato in tradizioni che abbracciano tanto l'osservazione scientifica quanto le narrazioni mitologiche. Per i nativi americani, infatti, questa contrapposizione tra scienza e tradizione non è netta. Non si tratta di un rigetto della scienza; al contrario, molti vedono in essa un'opportunità per integrare conoscenze e pratiche.
Recenti riconoscimenti dell'importanza delle scienze indigene da parte della comunità scientifica e delle istituzioni evidenziano un cambiamento di paradigma. C'è un crescente riconoscimento che le tradizioni indigene offrono intuizioni significative e dettagliate su aspetti ecologici e naturali che possono sfuggire alle analisi scientifiche tradizionali. Ad esempio, le conoscenze tradizionali sulla medicina delle piante e sull'ecologia si rivelano estremamente preziose per la comprensione delle interconnessioni tra gli esseri viventi e l'ambiente. In questo contesto, la scienza non è vista come un'alternativa alla saggezza nativa, ma come un complemento che può arricchire e validare le pratiche e le credenze locali.
Questo dialogo tra scienza e spiritualità offre una prospettiva alternativa su come affrontare le sfide contemporanee, suggerendo che un approccio integrato possa fornire risposte significative in un'epoca in cui le sfide ambientali e sociali richiedono un approccio olistico e rispettoso delle diverse forme di sapere.
Si tratta di una consapevolezza che probabilmente è ben chiara anche alla comunità della St. Joseph di Mescalero, New Mexico, e che auspicabilmente sta guadagnando terreno in ambienti più sensibili rispetto alla diocesi di Las Cruces. Nel giugno scorso, la Conferenza Episcopale Americana ha approvato il documento Keeping Christ’s Sacred Promise: A Pastoral Framework for Indigenous Ministry, un quadro pastorale per il ministero con le popolazioni native che includeva scuse formali ai popoli indigeni per le violenze e i traumi inflitti dalla Chiesa cattolica, nonché per il ruolo della Chiesa nelle boarding schools e nell’assimilazione forzata. Il documento stabilisce nuove linee guida per la pastorale, denunciando in particolare quella che viene indicata come una "falsa scelta" – purtroppo ancora sentita e, nel caso della St. Joseph, imposta – tra essere indigeni o cattolici: "Vi assicuriamo, come vescovi cattolici degli Stati Uniti, che non dovete essere l'uno o l'altro. Siete entrambi".
Questa idea è già radicata tra i parrocchiani di St. Joseph, che sperano di non doverla più difendere da attacchi interni. Per la parrocchiana Sarah Kazhe, il dipinto del Cristo Apache trasmette il modo in cui Gesù appare alla gente di Mescalero. "Gesù ti incontra dove sei e ti appare in un modo che comprendiamo", ha dichiarato. "Vivere il mio stile di vita Apache non è diverso dal frequentare la chiesa. L'atto sconsiderato di rimuovere un'icona sacra ha trasmesso il messaggio che noi non contiamo".